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Belle e selvatiche

​a cura di Patrizia Cecconi

Dieci righe su di me.

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Sia per la mia natura che per formazione accademica mi interessa indagare le comunità umane e i meccanismi sociali che ne influenzano  i comportamenti collettivi. Un giorno scopro che m’interessa anche conoscere il mondo vegetale e mi iscrivo alla scuola triennale di erboristeria e poi al corso di botanica a biologia e, successivamente, a svariati  corsi di botanica applicata. Passo dopo passo scopro che gli stessi meccanismi di inclusione e di esclusione che gli umani applicano tra di loro vengono applicati anche al mondo vegetale. Così  mi appassiono alle piante spontanee, quelle reiette, scacciate perché prive di valore (economico) e quindi definite “erbacce”. Scopro in loro un mondo di libertà che non si piega ai capricci e alla forza degli umani. Tengo seminari sulla flora spontanea e la mia passione non solo cresce, ma mi accorgo che si trasmette anche agli altri. La natura non è più un'entità esterna da rispettare ma è l’insieme di cui anch'io sono parte, e lo sono con i miei interessi politici, culturali, affettivi sia che guardi il cielo o che curi un animale, sia che scriva un libro o che cucini gli spaghetti. Ho davanti a me una trentina d’anni di vita, salvo imprevisti, e me li godo come elemento consapevole della natura di cui sono parte.

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In Belle e selvatiche tratteremo prevalentemente di vegetazione spontanea, con una particolare attenzione a quelle piante definite infestanti solo perché crescono libere senza sottostare alle regole del “bravo giardiniere” o della moda o del mercato.
Normalmente le piante spontanee, erbacee o arboree che siano, sono cacciate dai giardini privati ed estirpate dai vasi perché, offrendosi gratuitamente, non hanno un valore economico che possa magnificarne i pregi. Quindi, in quanto sgradite, sono considerata “erbacce”.

Le piante officinali non fanno differenza, a meno che non siano irreggimentate in appositi orti o giardini dedicati e comunemente chiamati  “orti dei semplici”, non perché siano elementi di poco conto, ma perché in passato botanici e speziali li consideravano, per i loro principi attivi, come trattamenti che non avevano bisogno di essere composti per essere efficaci.

E’ bene ricordare che le  “erbacce” subiscono una metamorfosi quando, da misconosciuto bene comune, trattato come res nullius, si trasformano in bene economico, o perché la moda ha fatto girare il vento a loro favore e si possono acquistare nei vivai, o perché, avendo proprietà medicinali, le si possono trovare in diversa forma sul banco di vendita dell’erborista o del farmacista.
In entrambi i casi si è avuta la trasformazione da res nullius  a bene economico e quindi le stesse piante calpestate o estirpate diventano apprezzate e apprezzabili perché valutate con metro monetario.

Le piante che tratteremo in questa rubrica saranno, quindi, tranne poche eccezioni, piante spontanee generalmente definite erbacce o infestanti, ma siccome quelle che esamineremo avranno proprietà che le rendono eduli e/o officinali, vedremo come possono essere utilizzate nel modo migliore sia in erboristeria domestica che in fitoalimurgia.

Proveremo anche a capire come riconoscerle in una passeggiata nei prati e come raccoglierle senza crear danno all'ambiente, come utilizzarle fresche e come conservarle per usi officinali, ma senza mai dimenticare che sono parti della stessa natura di cui noi siamo parte.

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LA TISANA DI NATALE, ALTRO CHE “AMMAZZACAFFÈ”

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Avete finito il pranzo di Natale e vi sentite leggermente pesanti? Non credete a chi vi dice che un amaro alcolico o peggio un distillato superalcolico vi farà digerire, è una chiacchiera sconfessata dai fatti. Bevete l’uno o l’altro o entrambi se vi piacciono, ma non vi illudete che vi facciano digerire!
Quello che vi propongo, e per una volta tradisco la mia predilezione per le “erbacce”, è un vero, gradevole ed efficace digestivo. Una tisana dal sapore molto buono, niente a che vedere con quelle cosette monacali e un po’ tristi che sembrano penitenze, ed è pure bella a vedersi e concluderà degnamente ogni gran pranzo .

Intanto mettete subito ad essiccare sul termosifone o in forno a basso calore, massimo 100°, la scorza di un’arancia biologica privata dell’albedo, cioè della parte bianca interna. Servirà per la tisana di Natale.

Le “droghe” che useremo sono quattro più la scorza d’arancia e sono: cannella, alloro, semi di anice o di finocchio e chiodi di garofano.
Forse vorrete sapere perché proprio queste e io ve lo dico ma senza entrare troppo nei dettagli.

P artiamo dalla cannella. Si tratta della corteccia arrotolata su se stessa di un arbusto il cui nome scientifico è Cinnamomum zeylanicum originario dell’Estremo Oriente. Contiene vitamine e sali minerali ed è un potente digestivo perché stimola la produzione di succhi gastrici e previene flatulenza e gonfiore intestinale. Inoltre favorisce la scissione degli zuccheri e dei grassi riducendo il livello di zuccheri e di colesterolo LDL nel sangue ed è particolarmente adatto a chi è iperteso.
Passiamo all’alloro. Useremo le foglie di un arbusto che spesso viene usato come siepe. E’ originario della regione mediterranea e se lasciato crescere liberamente può diventare un bellissimo albero sempreverde alto fino a dieci metri. Il suo nome scientifico è Laurus nobilis. Le sue foglie e le sue bacche hanno proprietà  digestive, sedative, ipotensive, facilitano la produzione e l’escrezione della bile, aiutano ad eliminare aerofagia e fermentazione intestinale e sono antispasmodiche, quindi ottime per calmare eventuali dolori gastrici da esagerazioni alimentari.
Vediamo ora i semi di anice (Pimpinenella asinum) o di finocchio (Foeniculum vulgare) entrambe piante a crescita spontanea appartenenti alla famiglia delle ombrellifere e molto simili tra loro come proprietà officinali ed anche come sapore e profumo, quindi per questo uso sono intercambiabili. Sono entrambi ricchi di sali minerali ed hanno proprietà antispasmodiche e carminative, ovvero riducono la f ermentazione dei cibi negli organi dell’apparato digerente contrastando gonfiori e dolori addominali. Il loro uso, sia officinale che aromatico-alimentare, risale alla notte dei tempi e li si trova in mille ricette tradizionali in molti Paesi del mondo.
Passiamo ora ad una droga che, insieme alla cannella, è stata occasione, in passato, di importantissimi commerci e, si sa, dove c’è il denaro c’è possibilità di guerra e quindi, per accaparrarsi queste spezie orientali, si è sparso parecchio sangue. Un po’ come per il petrolio dei nostri tempi.
Mi riferisco ai boccioli essiccati del Syzygium aromaticum o Eugenia caryophyllata, albero delle m irtaceae originario dell’Indonesia, vale a dire ai chiodi di garofano, che oltre ad avere un fortissimo potere antiossidante ed altre proprietà officinali, sono digestivi, attenuano la nausea da indigestione ed i disturbi intestinali.
Infine vediamo i benefici della scorza d’arancia. Anche l’arancio, Citrus sinensis, è un albero originario dell’Estremo Oriente ma conosciuto e naturalizzato in Europa nella sua forma di arancio dolce, da circa mezzo millennio. Trovò “casa” in Sicilia, dove fu portato dagli arabi e rispose con generosità all’accoglienza ricevuta, producendo i suoi migliori frutti particolarmente saporiti e profumati.
La scorza essiccata riduce acidità e bruciori di stomaco e inoltre, grazie ai suoi principi attivi, anche la scorza d’arancia agisce sulla metabolizzazione dei lipidi, riducendo il grasso presente nel sangue e ne facilita l’eliminazione, abbassando i livelli di colesterolo.

E ora che conosciamo almeno un po’ gli elementi che prenderemo nelle nostre mani passiamo alla preparazione.
Se non siete più di 5 persone vi basteranno le dosi per un litro d’acqua, altrimenti regolatevi in proporzione.
Mettete l’acqua in una pentola già al mattino aggiungendoci metà scorza d’arancia essiccata, tre stecche di cannella, 5 foglie di alloro meglio se fresco, due chiodi di garofano e un cucchiaio di semi di anice o di finocchio. Se amate un sapore leggermente dolce aggiungete a vostra scelta un cucchiaio di zucchero di canna o di miele, coprite la pentola e non ci pensate più fino a fine pasto.
Quando il pranzo sta per finire portate la pentola sul fornello, fate bollire per cinque minuti e spegnete. Lasciate in infusione per altri cinque minuti, quindi filtrate e servite.
Per fare la cosa esteticamente gradevole, di profumo e sapore già lo sarà, mettete la tisana in un’insalatiera, affettate un paio di rondelle d’arancia, lasciatele galleggiare insieme alle stecche di cannella bollite e servite la tisana col mestolo come fosse sangria. Sarà un’ottima e calda chiusura del pasto natalizio.

La scoperta del Raphanus raphanistrum.

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Ore 7 del mattino di un giorno di tanti anni fa. Doveva essere fine primavera. Avevo comprato da poco un terreno in Sabina, a nord di Roma, e stavo aspettando l’operaio che col decespugliatore avrebbe ripulito l’oliveto invaso da erbe e arbusti come avviene, del resto, in ogni terreno abbandonato che la natura tenta di riprendersi.

Mentre aspettavo l’operaio cercavo di capire qualcosa delle erbe che mi trovavo sotto i piedi, ma ancora ero troppo cittadina e i libri da soli non mi aiutavano molto.
Dev’essere stato proprio questo il punto di partenza, quello che mi avrebbe portato a fare prima corsi di giardinaggio, poi il triennio di erboristeria e infine una puntatina a biologia per studiare botanica e poi un master e poi alcune altre cosette per puro piacere, muovendomi tra erboristeria e botanica.

Aspettando l’operaio, mi studiavo la pianta che la faceva da padrona su tutto il piazzale. Aveva i fiori come la ruchetta, gialli e a quattro petali, ma l’odore era diverso, alcuni fiori poi non erano neanche gialli ma biancastri venati di violetto. Cercavo di capire cosa fossero con l’uso di un prontuario sulle erbe selvatiche quando finalmente sentii il rumore del trattore. Era arrivato l’operaio che avrebbe fatto respirare i poveri olivi assediati dalla vegetazione spontanea.

 

E cco qua, il signor Rico scende dal trattore, si sistema il grembialone di cuoio e la visiera e poi mi fa: “ma guarda un po’ signù quanti broccoletti servatichi che ce tieni! Issi so boni ‘n padella. Mojema (mia moglie) li caccia sempre giù cu l’aio e le live nostrane. Aho, e si li voi però cojeli subbito che poi io tajo tutto eh! Che queste, che t’ha da crede? queste so tutt’erbacce, o te le magni o le cavi via che sinnò commanneno loro e te vengheno pure ‘ndo c’hai il giardino.” Dialogo registrato perché dovevo tener a mente le parole dell’esperto che all’epoca neanche capivo benissimo!


Terrorizzata dalla rudezza genuina del signor Rico avevo raccolto subito qualche pianta prima che il decespugliatore “tajasse” tutto. Ecco, questo è stato il mio primo incontro in campo aperto con quelli che poi avrei scoperto essere i “rugni” che una mia zia umbra preparava con le patate e che in seguito avrei visto ogni tanto al mercato sui banchi delle erbe di quei verdurai che a Roma si chiamano “vignaroli” perché generalmente vengono dai Castelli Romani dove coltivano le vigne. Avrei anche scoperto che quella verdura che veniva servita nelle trattorie castellane col nome di ramoracce, che altrove chiamavano rafano selvatico, rugni, ramolacci o broccoletti selvatici era il Raphanus raphanistrum, proprio la pianta da cui iniziava la mia ricerca sul campo e non più solo sui manuali, di piante officinali spontanee, quelle generalmente definite “erbacce” e “cavate via” dai giardini perché infestanti.

 

Il Raphanus raphanistrum appartiene alla famiglia delle brassicacee, dette pure crucifere per via dei fiori, composti di quattro petali e quattro sepali posti a croce; al genere Raphanus e alla specie raphanistrum, catalogato come tale dal grande Linneo nel 1753, ma già conosciuto dai romani che, fissati com’erano, attribuivano alla sua radice proprietà afrodisiache.

 

La famiglia delle brassicacee è tra le più importanti nell’alimentazione umana, ha circa 3000 specie ed ha caratteristiche officinali che offrono i loro benefici anche nel semplice consumo alimentare.
Il Raphanus raphanistrum, generalmente detestato perché estremamente diffuso, lo troviamo praticamente in tutta Italia per buona parte dell’anno e possiamo consumarlo in primavera sia crudo che cotto e successivamente, quando le foglie induriscono, può essere essiccato per scopi erboristici oppure consumato cotto in una grande varietà di piatti della vecchia tradizione contadina.
Più precisamente il ramoraccio, oltre che nella cucina contadina, rientra nella vera e propria fitoalimurgia, cioè in quella pratica che segue la conoscenza dei vegetali spontanei ricchi di poteri nutritivi e privi di valore economico, utili a sopravvivere alle classi più povere. La fitoalimurgia nasce da una conoscenza del mondo vegetale che nel corso dei secoli ha rappresentato un sapere importante, sia per nutrirsi che per curarsi. Un sapere che in un brutto periodo della storia ha significato per gli uomini il mantenimento dell’autorevolezza del botanico e per le donne la disgrazia di vedersi considerare streghe proprio per quel potere di cura e di vita che lungi dal farle apprezzare spesso le ha destinate al rogo.
Ma torniamo al ramolaccio o rugno o broccoletto selvatico e vediamo che tra i suoi fondamentali principi attivi contiene tannini, proteine, lipidi, carboidrati, zuccheri, amido, polifenoli e, soprattutto, glucosinolati, che poi si trasformano in isotiocianati, tra cui il “sulforafano” un elemento con accertate proprietà antitumorali e detossicanti.

Il sulforafano è la sostanza che caratterizza, sebbene con diversa intensità, l’odore tipico delle crucifere durante la cottura. Quel brutto odore ci dice che il vegetale che stiamo per consumare ha un principio attivo che svolge funzioni citoprotettive e soppressive delle cellule tumorali particolarmente efficaci contro il cancro del colon-retto. Inoltre, il fitocomplesso che stiamo per consumare protegge anche dal cancro alla vescica e da malattie cardiovascolari compreso l’ictus.

 

Tra gli altri elementi importanti contenuti nel Raphanus raphanistrum troviamo le vitamine del gruppo B e le vitamine A, C ed E. La vitamina C lo ha reso in passato un trattamento antiscorbutico al pari dell’arancia, ma va ricordato che essendo termolabile, per poter beneficiare al massimo della vitamina C, il raphanus va mangiato crudo. Inoltre quest’erbaccia infestante contiene numerosi e preziosi sali minerali quali sodio, potassio, ferro, calcio, magnesio e fosforo.

Insomma la ricchezza dei suoi componenti ne fa un vero presidio officinale offerto gratuitamente dalla terra. Alle funzioni anticancerogene ed antiscorbutiche già citate vanno aggiunte le proprietà diuretiche e depurative, spasmolitiche e analgesiche, colagoghe e coleretiche ( che agevolano la produzione e l'escrezione della bile, con conseguente beneficio epatico) e, inoltre, offre un discreto aiuto contro l’insonnia.

Non va neanche sottovalutato l’apporto di triptofano, un aminoacido che agisce sulla produzione di serotonina, il cosiddetto ormone della felicità e la funzione antidepressiva svolta anche dalla vitamina B9, conosciuta anche come acido folico, che interviene nella produzione dei neurotrasmettitori che regolano l’umore.

 

Se prendiamo la parte ipogea, quella che gli antichi romani usavano consumare come afrodisiaco, la ripuliamo dalla terra e la tagliamo a fettine sottili cospargendole di sale grosso per farne uscire il succo, otteniamo un rimedio naturale per schiarire le macchie di pelle, comprese le efelidi. Basta raccogliere il liquido in una garza ed applicarla sulla pelle per una decina di minuti.

In mezzo a tante doti c’è però una controindicazione. Non riguarda solo il Raphanus ma tutte le crucifere: se si hanno problemi di ipotiroidismo non vanno mai consumate crude e solo con molta moderazione cotte poiché sono causa di una ridotta produzione degli ormoni tiroidei.

 

Vediamo altri usi di questa portentosa erbaccia selvatica come alimentazione e cura.

Per facilitare il sonno si fa un decotto di foglie fresche (circa 30 grammi) o un cucchiaio colmo di foglie essiccate lasciate bollire in 250 ml di acqua per 10 minuti. Lasciare in infusione per altri 5 minuti quindi filtrare e bere. L’effetto non sarà solo quello di facilitare il sonno, ma sarà anche diuretico e depurativo del sangue.

Per tutte le altre proprietà sopra elencate, il ramolaccio va semplicemente consumato come alimento. Può essere pestato fresco con un filo di olio d’oliva esattamente come il basilico ed usato per crostini o per condire la pasta. Le sue foglie giovani possono essere consumate fresche in insalata, godendo così anche di un buon apporto di vitamina C; le sue foglie meno tenere possono essere lessate o cotte al vapore e poi ripassate in padella con olio e aglio come si usa ai Castelli Romani, o con le “live nostrane” come fa la moglie del signor Rico visto che la Sabina è terra di olivi; oppure cotti in poca acqua, insieme alle patate sbucciate, e poi ripassati in padella come usano in Umbria e nelle Marche dove assume il nome di “rugni”. La mia zia umbra non sapeva perché la mamma, la nonna, la bisnonna e tutte le sue compaesane cuocessero questa bell’erbaccia insieme alle patate e pensava fosse perché in quella zona, dal terreno sassoso, le patate da oltre 400 anni forniscono nutrimento a basso costo. Invece il motivo scientifico, che né la fitoalimurgia né la demoiatria probabilmente conoscevano, ma che di sicuro intuivano, è che i sali minerali si disperdono nell’acqua e quindi le patate (come la pasta o altri farinacei) cotte insieme alle foglie li assorbono e ce li restituiscono.
Un altro modo quindi di detossicare il fegato “godendo” è quello di cuocere insieme pasta e ramolacci e saltarli velocemente in padella con aglio, olio e, volendo, peperoncino.

A questo punto non mi resta che spiegare come riconoscere questa bella e selvatica infestante tracciandone un rapido profilo botanico.

E’ una pianta erbacea che alle nostre latitudini può raggiungere i 40 – 50 cm di altezza. Il fusto ha pochi rami da cui nascono le foglie, lunghe, un po’ ispide, di forma lanceolata e multilobata, con margine dentellato e costolatura tendente al rossiccio. I fiori di colore bianco o giallastro sono portati da un lungo stelo e sono tutti forniti dei quattro petali a croce che ne mostrano l’appartenenza alla famiglia. La parte ipogea consta di un fusto ingrossato e generalmente a cono che può raggiungere i 40 cm di lunghezza, comunemente scambiato per radice a fittone, mentre le vere radici sono i filamenti che ne escono e che forniscono il nutrimento assorbito dalla terra. La cosiddetta radice può essere utilizzata come quella del rafano sativo, sia per scopi alimentari sia per scopi officinali.

Contro i dolori reumatici la medicina popolare usava grattugiarla, mescolarla con aceto facendone un impasto molle e poi applicarlo sulla parte dolente.
Un altro rimedio officinale, sempre contro i dolori reumatici, si ottiene lasciando macerare al buio per 48 ore 50 gr di radice grattugiata in un quarto di litro di aceto. Quindi si filtra e si usa per massaggiare le parti dolenti. Il liquido restante va conservato in frigo e mantiene la sua efficacia per un paio di mesi.
Un altro antico rimedio demoiatrico usava la radice di ramolaccio per sciogliere il catarro. Grattugiata, scaldata e quindi applicata sul petto in un sacchetto di tela esercita la sua azione fluidificante dei catarri bronchiali.
Un altro sistema tradizionale per ottenere lo stesso risultato, ma non utilizzabile per i bambini, è quello di preparare un “enolito” cioè un vino medicato, lasciando macerare al buio per otto giorni in un litro di vino di buona gradazione, 50 gr. di radice fresca grattugiata. Quindi filtrare e berne un bicchierino al giorno lontano dai pasti.

Curiosità per chi apprezza l’americano Martini dry, versione extracomunitaria snob del più popolare e ormai dimenticato vermouth nostrano. Il vermouth è in fondo semplicemente un vino medicato con artemisia. L’artemisia è una veramente bella e selvatica erba che, come dice il nome, ha qualcosa a che fare con la dea Artemide, ma ne parlerò in un altro articolo e spiegherò come produrre facilmente un vermouth con l’utilizzo di due soli vegetali, entrambi legati a due dei pagani molto interessanti: Dioniso e Artemide, o, per i latini, Bacco e Diana.

Ancora un suggerimento erboristico per chi ha problemi digestivi e poi ci salutiamo.

G rattugiate un cucchiaio abbondante di radice di ramolaccio e fatelo bollire in 250 ml d’acqua per circa 10 minuti. Filtrate e prendetene un paio di cucchiai dopo ogni pasto. Conservate in frigo per non più di tre giorni.

Concludendo vi invito a non disprezzare più questa pianta se la trovate in giardino, ma ringraziate la Natura che ha voluto offrirvela completamente gratis.

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​La Malva sylvestris L.

 

 

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Dato il periodo in cui ci troviamo, ho scelto di parlarvi di una pianta spontanea particolarmente utile per le vie respiratorie oltre che per altre parti del corpo umano: la Malva sylvestris L. ovvero la malva selvatica che cresce e fiorisce spontaneamente ovunque trovi un terreno azotato. Un vero regalo della natura, tanto che in altri tempi era definita omnimorbia per le sue possibilità di alleviare molti mali.
Magari con un minimo di pratica si può imparare anche a raccoglierla fresca, quando possibile, e a usarla anche come cibo oltre che come pianta officinale.

La malva appartiene alla famiglia delle colonnifere o malvacee, può essere biennale o perenne, ha una radice a fittone e il fusto può presentarsi sia eretto che sdraiato. Dalla radice ai fiori ogni parte può essere usata. Riconoscerla non è difficile, le sue foglie sono tondeggianti o leggermente lobate ed hanno il margine inciso. I suoi fiori sono di un bel color viola con striature di colore più o meno intenso a seconda del terreno. La corolla è composta da cinque petali, tutti con una leggera insenatura nella parte apicale. La fioritura inizia in primavera e si protrae fino alla fine dell’autunno se la stagione non è particolarmente fredda. Si può raccogliere sempre, purché non sia invecchiata o colpita dalla puccinia malvacearum, un fungo che si attacca alle venature dando loro il colore tipico della ruggine nella lamina inferiore della foglia.

Vediamo come usarla se vogliamo farne un rimedio officinale, casalingo, ma di garantita efficacia. E’ probabile che al momento, essendo autunno inoltrato, solo in poche aree se ne possa ancora trovare in buone condizioni, quindi vi conviene prenderla direttamente in erboristeria. Se invece ne trovate ancora e se siete sicure/i che nessuno abbia usato pesticidi sul prato in cui volete raccoglierla, prendete le foglie prive del picciolo, sciacquatele velocemente con acqua fredda, asciugatele subito e delicatamente e lasciatele essiccare all’ombra. Quando l’essiccazione sarà completa conservatele in sacchetti di tela al buio. Non credo troviate fiori in questo periodo, ma nel caso ne trovaste essiccateli nello stesso modo ma senza sciacquarli e poi conservateli in vasi di vetro, sempre al buio. Se la comprate già essiccata in erboristeria, di solito trovate fiori e foglie insieme.

I principi attivi che rendono la malva un rimedio officinale con proprietà emollienti, antinfiammatorie delle mucose, antispasmodica, bechica, espettorante e leggermente lassativa sono molti, i più importanti sono: le mucillagini, i tannini, i flavonoidi, l’acido clorogenico, la pectina e la malvina.

Ora vedremo il suo uso interno ed esterno e gli organi su cui agisce. Vedremo come preparare facilmente pomate, impiastri e tisane con questa “droga”. Non spaventatevi per il termine usato, in passato si definiva “droga” ogni erba per i suoi principi attivi ed il termine è rimasto in uso. Le persone più ricche di anni ricorderanno che una volta anche il venditore di prodotti alimentari si chiamava droghiere, ma non era uno spacciatore!
Per quanto riguarda gli organi che beneficiano dell’azione della malva, al primo posto troviamo l’apparato respiratorio, dalle vie aeree superiori, all’albero bronchiale , ai polmoni. Sulle diverse affezioni di questi organi, dalla più banale faringite fino alla polmonite, le proprietà emollienti e antinfiammatorie della malva apportano benefici. Al secondo posto troviamo l’apparato digerente. Le mucillagini hanno funzione protettiva delle pareti dello stomaco e dell’intestino favorendo la digestione e l’evacuazione e quindi alleviando dolori gastrici e intestinali. Come uso esterno la malva svolge un’efficace azione emolliente e antinfiammatoria anche sull’epidermide.

Cominciamo ora le preparazioni officinali a partire dalle tisane per poi arrivare a impiastri e pomate. Le tisane sono di due tipi: decotti, quando la droga viene fatta bollire insieme all’acqua che è il suo solvente, e infusi quando invece l’acqua bollente si versa sulla droga e la si lascia in infusione per alcuni minuti.
Sia infusi che decotti andrebbero usati nel giro di poche ore per non perdere la loro efficacia. Se ne fate un grande quantitativo, quel che non usate subito dovete tenerlo in frigo ed usarlo al massimo entro 48 ore, però parte della sua efficacia sarà andata via col passar delle ore.

Infuso di fiori e foglie per:

  • Gengiviti, infiammazioni delle mucose orali e della gola.

Versare una tazza di acqua bollente su un cucchiaio di droga. Coprire, lasciare in infuso per 8-10 minuti. Filtrare, fate stiepidire e poi fate sciacqui e gargarismi. Ripetere per tre o quattro volte al giorno per un paio di giorni.


 

  • Come coadiuvante oftalmico.

Versare 500 ml di acqua bollente su un cucchiaio di malva e un cucchiaino raso di fiori di camomilla. Coprire e lasciare in infusione per un’ora. Filtrare più volte perfettamente usando un tessuto dopo il secondo filtraggio. Sciacquare gli occhi più volte durante la giornata con questa tisana.


 

  • Per combattere tosse e malattie da raffreddamento.

Versare una tazza di acqua bollente su un cucchiaio di droga e un cucchiaino di miele. Lasciare in infusione per 5-6 minuti. Filtrare e bere lentamente. Sarà un ottimo palliativo per la tosse, in particolare per la tosse secca. Ripetere più volte al giorno.


 

Se non avete intolleranza al latte, fate un infuso con un litro di latte e due cucchiai di malva. Lasciate in infusione 5 minuti quindi filtrate. Consumatelo caldo (si può riscaldare senza che perda efficacia) durante la giornata. E’ più efficace, come sedativo della tosse, di molti prodotti farmaceutici.


 

  • Per combattere le costipazioni intestinali e come rinfrescante gastrico.

Per questo scopo sono particolarmente adatti i fiori. Versate 500 ml di acqua bollente su 3 cucchiaini di fiori. Lasciate in infusione per 8-10 minuti. Bevete l’infuso a più riprese durante la giornata. Per regolarizzare senza stress la funzione intestinale ripetete ogni giorno questo trattamento finché non ne avrete più bisogno.


 

NB. Per i lattanti: spesso i neonati hanno terribili dolori intestinali detti coliche d’aria. I fiori di malva, freschi o essiccati possono risolvere in fretta questo problema. Prendete due o tre fiori e metteteli in infusione in 50 ml d’acqua bollente che poi filtrerete, farete stiepidire ed aggiungerete al latte del biberon. Generalmente l’effetto è pressoché immediato.


 

Decotto di fiori e foglie per:

  • Infiammazioni vaginali.

Prendere 30 gr. di fiori foglie e possibilmente radici essiccate e farli bollire per 5 minuti in un litro d’acqua. Lasciare poi in infusione per 20 minuti. Filtrare ed usare per lavande interne ed esterne.


 

  • Pelle arrossata, couperose e irritazioni epidermiche.

Bollire in 250 ml d’acqua un cucchiaino di fiori e foglie per 3 minuti. Lasciare in infusione finché la tisana sia tiepida, quindi filtrare ed applicare compresse di tela o garza o dischetti struccanti sulle parti interessate per alcuni minuti diverse volte al giorno


 

  • Per decongestionare caviglie e piedi gonfi.

Bollire un cucchiaio abbondante di fiori, foglie e radici in 250 ml d’acqua per 7-8 minuti. Filtrare e aggiungere all’acqua per un pediluvio leggermente caldo.


 

  • Come coadiuvante per la cistite.

Bollire 30 gr di droga in un litro d’acqua per 10 minuti. Filtrare e bere durante la giornata lontano dai pasti.


 

  • Come espettorante.

Bollire 2 cucchiai di droga per 10 minuti in mezzo litro d’acqua. Lasciare in infusione cinque minuti, quindi filtrare, aggiungere del miele e bere caldo.
NB. Se l’infuso è un ottimo palliativo per la tosse, il decotto è ottimo per espellere i catarri bronchiali.

Pomate e impiastri come cosmetici e contro i dolori articolari:

  • Impiastro per eliminare velocemente foruncoli purulenti.

Prendete una manciata di foglie fresche, tritatele e bollitele per 5 minuti in pochissima acqua a recipiente coperto. Ne otterrete una poltiglia che metterete in una tela e applicherete sul foruncolo per favorirne la maturazione in brevissimo tempo.


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  • Pomata per lenire i dolori articolari.

Polverizzate con un omogeneizzatore o a mano con un pestello 50 gr di fiori secchi e mescolateli a 100 gr di burro di cacao o di karité (entrambi acquistabili presso le erboristerie ben fornite) e ne ricaverete una pomata ottima per lenire dolori articolari. Si conserva per un anno.


 

  • Crema anti-age.

Partendo dal presupposto che nessuna crema è realmente anti-age, non possiamo attenderci miracoli. Ma visto che la malva ha tra i suoi molti principi attivi anche gli antiossidanti e che ha comprovate funzioni emollienti, nel periodo in cui potrete raccoglierne foglie e fiori direttamente nei prati, potrete provare questo trattamento antirughe. Non sarà comunque meno efficace di quelli acquistati in profumeria.
Raccogliete tante foglie che senza picciolo possano pesare circa 150 gr. Non impiegherete molto perché le foglie di malva sono abbastanza pesanti. Raccogliete quanti più fiori possibile e comunque non meno di 20 gr. Sciacquate velocemente e con acqua fredda le foglie e quindi asciugatele.
Mettete a bagnomaria in un pentolino – non di alluminio né di rame – 150 gr di burro di karité e 80 ml di acqua distillata o precedentemente fatta bollire, quindi aggiungete foglie e fiori e girate con pazienza finché l’acqua non sia del tutto evaporata. Se avete un bastoncino di vetro da erborista è meglio, ma potete usare anche uno strumento di acciaio inossidabile. Quando l’acqua sarà del tutto evaporata, lasciate stiepidire e quindi filtrate bene per due volte in una tela, quindi mettete la crema ottenuta in un vasetto ed usatela ogni sera dopo aver pulito perfettamente il viso.

Quelli sopra esposti sono tutti rimedi officinali di facile preparazione domestica. In questo periodo in cui più che mai una tosse o un raffreddore ci possono giustamente spaventare, procuratevi della malva e abbondate in tisane. Non ci sono controindicazioni. Io l’ho usata anche per lenire la terribile tosse secca provocata dalla covid-19 ed ha funzionato benissimo. Non è un medicinale, sia chiaro, ma un palliativo. Quando la tosse sembra spaccare lo sterno vi garantisco che la tisana di malva arriva come la famosa “mano santa”.

Ma la malva ha anche usi alimentari. Se vogliamo andare indietro nel tempo possiamo ricordare Orazio, il grande poeta latino che la citava nella sua preghiera ad Apollo, ma è più divertente pensare a Cicerone che ne andava pazzo consumandola con la ricotta. Con un certo impegno e riempiendo gli spazi vuoti con un po’ di fantasia ho ricostruito la ricetta della focaccia di malva e ricotta che tenne Cicerone lontano dal Senato per diversi giorni per averne abusato al punto di subirne come conseguenza, e per diversi giorni, uno dei fastidi intestinali che è poco elegante chiamare per nome!

Parecchie ricette si possono realizzare con la malva, io ne conosco una decina, anche se in Italia abbiamo smesso di usarla come cibo. In Medio Oriente invece ne fanno un uso quasi quotidiano, tanto che viene anche venduta a mazzetti nei suq. In arabo si chiama Kobeiza (la pronuncia varia leggermente da paese a paese) e uno dei piatti più gustosi che io conosca si chiama “fatta kobeiza” ed è ottimo anche per vegetariani e vegani.

E’ un peccato che noi ne abbiamo perso l’uso, pensate che ce n’è traccia perfino nel papiro di Ebers, il più antico trattato di piante officinali risalente alla civiltà egizia di circa 5 millenni fa e poi, passando per greci e latini ha servito per millenni come cibo oltre che come medicinale. Carlo Magno la faceva coltivare nei giardini imperiali ovunque andasse considerandola ottimo cibo e ottimo medicinale. Poi, per il capriccio della storia, nelle nostre terre ha perso ruolo ed ha finito per essere considerata un’infestante, tollerata solo perché è riuscita a conservare un posticino di rispetto tra le piante officinali.

Ma qui voglio chiudere in dolcezza e quindi vi dico come fare la focaccia dolce di Cicerone. Magari non è la stessa che si usava nell’antica Roma ma vi garantisco che piacerà a tutti.
Dunque, se non sapete fare una pasta frolla sottile, fate una cosa un po’ commerciale, cioè andate al supermercato e comprate la pasta frolla pronta. Ve ne serviranno due confezioni, una per foderare la teglia e l’altra per coprire il ripieno. La dose che vi do è per dieci persone, poi regolatevi voi. Prendete 600 gr di foglie di malva fresche, lavatele velocemente in acqua fredda e tagliuzzatele. Fatele bollire per non più di tre minuti in pochissima acqua, meglio ancora sarebbe al vapore. Mettere in una terrina 800 gr di ricotta buona e fresca, 4 cucchiai di miele, 2 tuorli d’uovo, la buccia grattugiata di un limone o di un’arancia, 5 o 6 fichi freschi e maturi o in alternativa 4 cucchiai di marmellata di fichi, 100 gr di uva passa e la malva scolata e stiepidita. Un pizzico di sale e, se amate molto il dolce, aggiungete 3 cucchiai di zucchero di canna. Mescolate tutto molto bene e versatelo nella teglia su cui avrete già sistemato la prima sfoglia di pasta frolla. Coprite con la seconda sfoglia, che magari avrete allungato un po’ col mattarello in modo che i bordi possano essere perfettamente chiusi. Bucherellate con uno stecchino e poi schizzate un po’ di acqua e limone sulla superficie e spolverateci un po’ di zucchero di canna che farà una crosticina squisita. Mettete in forno a 180 -200 gradi per circa mezz’ora e poi fatemi sapere che ne pensate.

Può darsi che un giorno la malva tornerà in auge e quel giorno, chi oggi la estirpa dal suo giardino, andrà a comprarne i semi e la mostrerà con orgoglio come si fa con le rose o con tutte quelle piante che hanno diritto al rispetto perché hanno un riconoscimento economico. Al momento io tifo per le erbacce!

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